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Pubblicato su EastJournal, 25 settembre 2012

Sikorski Blenheim

Il Regno Unito sarà europeo, o non sarà: è il succo del discorso di Radek Sikorski (pdf), ministro degli esteri polacco, al Blenheim Palace di Oxford. Sikorski, già studente ad Oxford come rifugiato anticomunista negli anni ’80 ed accolito di Cameron e Osborne, è tornato alla sua alma mater con un discorso fuori dai denti in cui attacca direttamente i 10 miti degli euroscettici britannici sull’Europa Unita.

Sikorski ha sottolineato che la maggioranza delle esportazioni britanniche sono verso altri paesi UE, che la tanto detestata Convenzione Europea dei Diritti Umani non è una istituzione UE ma anzi una creazione inglese degli ultimi anni ’40, che il costo dell’UE per i cittadini del Regno è minimo (15 pounds all’anno, contro 1500-3500 di benefici del Mercato Unico), che le 33.000 persone dello staff della Commissione sono nulla rispetto alle burocrazie nazionali, e che le direttive UE non sono “diktat” ma frutto di iniziative e negoziati da parte degli stati membri.

Richiamando il contributo inglese nella costruzione europea, Sikorski ha indicato come l’UE “è una potenza che parla inglese. Il mercato unico è stata un’idea inglese. Un commissario inglese [Cathy Ashton] guida il nostro servizio diplomatico. E voi potreste, se solo voleste, guidare la politica europa di difesa“. Ma, se ciò non dovesse essere il caso, “non aspettatevi che vi aiutiamo a far naufragare o paralizzare l’Unione”.

Con terminologia marxista, Sikorski ha sostenuto che l’euroscetticismo inglese è un fenomeno di “falsa coscienza”, in cui l’identità e le percezioni dei cittadini britannici sono fuori sincronia con i loro reali interessi. Infine, ha tenuto a mostrare l’impossibilità delle alternative presenti nel dibattito inglese: l’abbandono dell’UE e il ritorno ad una relazione di “free trade area” con il continente.

Le spinte all’integrazione e le reticenze del governo britannico

Il discorso di Sikorski ad Oxford segue la pubblicazione di un report congiunto dei ministeri degli esteri di 10 paesi del cuore dell’UE, il “Future of Europe Group“. I sei paesi fondatori, più Austria, Danimarca, Spagna e Portogallo, chiedono “più Europa” per uscire dalla crisi, e propongono la supervisione europea dei budget nazionali, poteri di supervisione bancaria per la BCE, un Fondo Monetario Europeo per gestire i bail-out e più poteri per il Parlamento Europeo.

Allo stesso tempo, nel Regno Unito, numerosi deputati conservatori spingono perché David Cameron indica prima delle elezioni del 2015 un referendum sulle recenti proposte della Commissione, inclusi i più stretti controlli sulle politiche monetarie nell’eurozona, e l’integrazione della politica della difesa. I Tories sono anche preoccupati dall’ascesa elettorale degli euroscettici dell’UK Indipendence Party di Nigel Farage, e cercano di rincorrerli sul loro stesso terreno

Sikorski, un leader in costruzione?

Non è la prima volta che Radek Sikorski sale alla ribalta per la sua retorica e capacità di andare al punto. Un anno fa, con un discorso storico a Berlino, aveva spinto la Germania a prendere in mano le redini della costruzione europea per farla uscire dalle paludi dell’eurocrisi. E ancora, in un’intervista, aveva sostenuto di non escludere che un fallimento del progetto europeo potesse portare a una nuova guerra in Europa.

La vulgata a Bruxelles vuole che tra i papabili per la successione a Barroso, in scadenza nel 2014, ci sia il primo ministro polacco Donald Tusk. Tuttavia, nel 2014 Tusk sarà a metà mandato: vorrà lasciare la guida del governo di Varsavia a Sikorski, oppure penserà bene di proiettare il suo ministro, oggi 49enne, direttamente alla guida della Commissione Europea?

Da oggi Kaliningrad è un po’ più vicina all’Europa. La città russa sul Baltico, già luogo natale di Kant, ha acquistato il diritto per i suoi cittadini di muoversi senza necessità di visto in due regioni frontaliere della Polonia (e viceversa). Grazie ad un accordo bilaterale tra Russia e Polonia, e alla modifica di un regolamento dell’Unione Europea, tutti i residenti dell’oblast, divenuto una enclave Schengen a partire dal 2004, beneficiano ora di una maggiore libertà di movimento. Ma andiamo con ordine.

Come ammorbidire la frontiera Schengen: gli accordi di traffico frontaliero locale

L’area coperta dall’accordo LBT per Kaliningrad (fonte: http://emn.gov.pl/dokumenty/zalaczniki/75/75-12989.jpg)

L’adesione dei paesi dell’Europa centro-orientale all’Unione Europea ha portato con sé lo spostamento ad est della frontiera dell’area Schengen di libera circolazione – con l’effetto collaterale di irrigidire frontiere che invece avevano forti dinamiche economiche e sociali, quali il confine polacco-ucraino. Per alleviare tali effetti negativi, il Codice Schengen prevede la possibilità di firmare degli accordi bilaterali tra un paese UE e un paese terzo – accordi di traffico frontaliero locale  (LBT), regolati in base alla Local Border Traffic Regulation n. 1931/2006. Tali accordi permettono ai residenti di una fascia di trenta chilometri sui due lati della frontiera (estendibile fino a cinquanta chilometri) di attraversarla senza visto, solo grazie ad un documento amministrativo da rinnovare periodicamente, e di potersi muovere nella fascia di 30 (o 50) km al di là della frontiera. Gli accordi LBT permettono quindi la circolazione tra le zone frontaliere, senza la possibilità di muoversi nello spazio Schengen o nell’intero paese UE. Quattro accordi LBT sono già in vigore: tra l’Ucraina e l’Ungheria (2008), la Slovacchia (2008) e la Polonia (2009), e tra Romania e Moldavia (2009). Un accordo successivo, tra Norvegia e Russia sulla frontiera artica, è entrato in vigore nel 2011 ed ha fatto da apripista per l’accordo russo-polacco su Kaliningrad. Altri accordi sono in via di negoziazione: Bielorussia e Russia con Lettonia e Lituania, e Ucraina-Romania.

Il “caso Kaliningrad”: una cooperazione russo-polacca e la resurrezione dell’area della Prussia

La previsione degli accordi LBT ha ben funzionato in diversi casi, ma nel caso dell’exclave russa di Kaliningrad avrebbe portato ad un paradosso, separando i cittadini del piccolo oblast in quattro categorie: gli aventi diritto al transito frontaliero con la Polonia, con la Lituania, con entrambi i paesi, o con nessuno dei due. E in quest’ultima categoria sarebbe finito il mezzo milione di abitanti della città di Kaliningrad, circa la metà della popolazione della regione e suo centro economico e politico.

L’accordo russo-polacco, negoziato tra 2008 e 2010, prevedeva perciò che l’intera popolazione dell’oblast potesse beneficiare del regime semplificato di transito frontaliero – purché residenti da 3 anni – potendosi recare in una regione allargata del nord-est polacco, in alcuni comuni delle regioni di Varmia e Masuria, fino a 30 giorni alla volta, per un totale massimo di 90 giorni all’anno.

Tuttavia, per poter entrare in vigore, tale accordo aveva bisogno di una revisione del diritto europeo, e in specifico del Regolamento LBT del 2006: ciò che chiedevano con una lettera comune a Cathy Ashton i ministeri degli esteri di Russia e Polonia nell’aprile 2010. L’idea venne fatta propria dalla Commissione Europea, e il regolamento LBT veniva modificato con un voto pressoché unanime del Parlamento Europeo (556 sì e 69 no) nel dicembre 2011, considerando Kaliningrad come “eccezione” e dando all’intera regione lo status frontaliero. L’accordo LBT tra Russia e Polonia poteva così entrare in vigore il 27 luglio 2012: circa due milioni di cittadini polacchi, ed un milione di cittadini russi, hanno così acquistato il diritto di muoversi nelle reciproche regioni.

L’accordo copre, oltre all’oblast di Kaliningrad, le maggiori città del nord-est polacco: la tripla metropoli (trojmiasto) di Danzica-Gdynia-Sopot alla foce della Vistola, e le città di Elbląg e Olsztyn nella regione dei laghi masuri. In piccolo, l’accordo permette la resurrezione dell’area della Prussia orientale, divisa tra Russia, Polonia e Lituania al termine del secondo conflitto mondiale.

Mappa della Prussia orientale (1923-39) con sovraimposte le frontiere odierne (fonte: http://nccg.org/preussen/FAQ02.html)

Rischi e benefici. Tra economia e influenza politica

La liberalizzazione dei visti, de facto, tra l’oblast di Kaliningrad e il nord-est polacco porta con sé una serie di rischi e di benefici.

Tra i vantaggi, c’è di certo l’evitare di creare divisioni di status tra i residenti dell’oblast. La possibilità di muoversi liberamente darà inoltre una spinta alla cooperazione culturale e scientifica, e favorirà il turismo e il commercio. I cittadini polacchi andranno probabilmente a fare il pieno in Russia, dove costa la metà, mentre i russi potranno fare la spesa in Polonia, dove molti prodotti sono più economici grazie ai benefici del mercato interno UE; un nuovo centro commerciale è già in costruzione a Braniewo, vicino alla frontiera. Le città polacche della costa beneficieranno inoltre di un maggiore influsso di turisti russi, che già vi si recano.  Kaliningrad è fortemente dipendente dall’importazione di beni, e se l’accordo produrrà gli stessi effetti dell’accordo LBT polacco-ucraino (grazie al quale il valore delle spese dei cittadini ucraini in Polonia è raddoppiato in tre anni) entrambe le aree potranno godere dello sviluppo dei commerci. E anche lo sviluppo dell’influenza politica polacca (ed europea) nella regione non è da sottovalutare.

Per quanto riguarda i rischi, il fattore sicurezza e immigrazione è probabilmente il più pubblicizzato: alcuni analisti polacchi hanno citato il timore che la Germania possa reintrodurre i controlli alle frontiere, se i cittadini di Kaliningrad dovessero abusare sistematicamente dell’accordo LBT. Tuttavia l’esperienza degli altri accordi LBT mostra che tale paura è eccessiva. Nella valutazione degli accordi di frontiera esistenti, la Commissione ha riportato ben pochi casi di abusi, specialmente per quanto riguarda la violazione della zona di frontiera per recarsi in altri stati membri UE: controlli random al di là della zona di frontiera possono portare ad un bando dalla zona Schengen per 5 anni ai cittadini di stati terzi trovati in violazione delle regole.

E’ più probabile che sia il sistema polacco di gestione delle frontiere ad andare sotto stress a causa del più alto numero di attraversamenti. A tal fine, è previsto che i cittadini dell’oblast abbiano dei punti-frontiera appositi, e che il personale polacco venga formato sulle novità introdotte.

Le reticenze lituane, le ambiguità russe, e le prospettive per la liberalizzazione dei visti

L’accordo LBT su Kaliningrad ha visto una frenetica attività diplomatica della Polonia, anche in relazione al suo periodo di presidenza a rotazione del Consiglio dell’Unione Europea nel secondo semestre 2011. Dall’altra parte, esso non ha raccolto lo stesso entusiasmo delle autorità lituane. Vilnius non ha accettato il principio di estensione dell’area frontaliera all’intero oblast di Kaliningrad, cosa che avrebbe comportato l’apertura ai cittadini russi di una regione della Lituania inclusiva di Kaunas, la seconda città del paese. I lituani sono pertanto rimasti alla finestra, a vedere come la Polonia avrebbe proseguito nell’iniziativa.

Anche l’atteggiamento delle autorità della Federazione Russa non è stato sempre coerente. Nel giugno 2011, a Sochi, Putin ha criticato lo status speciale per la regione, giustificandosi in base alla parità di trattamento tra tutti i cittadini russi e temendo che ciò possa comportare ritardi sulla liberalizzazione dei visti per tutto il paese, una volta che Bruxelles avrà ottenuto vantaggi nella regione che gli interessa di più. In effetti l’oblast di Kaliningrad ricopre un ruolo particolare nella Federazione Russa: da una parte principale base militare della flotta del Baltico (nel 2008 Putin minacciò di schierarvi missili Iskander contro il progetto americano di scudo spaziale), dall’altra regione a rischio di separatismo e di ingresso di idee occidentali (vedi la nascita del sindacato ‘Solidarnost’ e le proteste antigovernative).

L’entrata in funzione dell’accordo LBT, in ogni caso, costituirà un test importante per un successivo eventuale dialogo sulla liberalizzazione dei visti con la Russia. Un tale dialogo è attualmente aperto tra l’UE, la Georgia, l’Ucraina e la Moldavia, e alcuni stati membri (tra cui Francia e Germania) sono a favore dell’estensione di tale processo alla Russia.

Pubblicato su EastJournal, 23 agosto 2012

di Davide Denti

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Il parlamento polacco, con una maggioranza trasversale (fatta dai voti della Piattaforma Civica del premier Donald Tusk e di Diritto e Giustizia dell’ex primo ministro Jaroslaw Kaczynski) superiore ai due terzi ha bloccato martedì 25 luglio il dibattito su due progetti di legge per la legalizzazione delle unioni omosessuali, presentati dai libertari del Movimento Palikot (RP) e dall’Alleanza Democratica di Sinistra (SLD).

Secondo i deputati della maggioranza di Piattaforma Civica (PO), le due proposte di legge erano incostituzionali. PO dice di stare lavorando ad un disegno di legge alternativo, da presentare in autunno, che introdurrebbe le unioni civili. I partner registrati potrebbero così ottenere mutui congiunti e il pagamento degli alimenti, ma non compilare unitamente la dichiarazione delle tasse. Un disegno di legge di PO sulla questione era già stato annunciato a marzo ma ancora latita.

Secondo l’analista polacco Remi Adekoya, “il problema fondamentale è che il parlamento polacco è attualmente più conservatore della società che rappresenta“. L’attuale Sejm ha accolto per la prima volta un deputato apertamente omosessuale e una deputata transgender (entrambi di RP). Tuttavia il partito di maggioranza relativa, il centrista Piattaforma Civica, è ostaggio sui temi etici (dal matrimonio omosessuale alla fecondazione artificiale) di una minoranza di deputati conservatori al suo interno, e il premier Donald Tusk non sembra volersi prendere cura della questione. A noi italiani la situazione dovrebbe ricordare qualcosa, dopo le ultime polemiche all’interno del PD.

Da EastJournal

 

Deputy Minister For EU Affairs Andreas Mavroyiannis Unveils The Logo Christos Theodorides

Dal 1° luglio 2012 Cipro assume la Presidenza a rotazione del Consiglio dell’Unione Europea, alla fine del semestre danese. Uno sguardo su priorità e sfide, e sull’esperienza degli altri paesi dell’Europa centro-orientale nello stesso ruolo.

Cos’è la presidenza a rotazione del Consiglio dell’UE

Il Consiglio dell’Unione Europea è l’istituzione comunitaria che riunisce, a seconda dei differenti settori, i ministri competenti dei 27 governi nazionali dell’Unione. Il Consiglio condivide con il Parlamento la funzione legislativa, e si occupa delle materie gestite a livello intergovernativo, come la politica estera e di sicurezza comune. La presidenza a rotazione è stata introdotta per coordinare l’agenda dei lavori e garantire il funzionamento continuo del Consiglio. Negli anni, è diventata sempre più un’opportunità per i diversi paesi per mostrare le proprie capacità organizzative e diplomatiche nella costruzione del consenso, guadagnandone in immagine.

Il Trattato di Lisbona (2009), che istituzionalizza il Consiglio europeo (a livello dei capi di stato e di governo, differenziato dal Consiglio dell’UE a livello dei ministri) e vi associa un Presidente fisso (Herman Van Rompuy), ha depotenziato il ruolo delle diplomazie nazionali e della presidenza. Tuttavia, gli stati non hanno voluto abolirla, anche solo per il suo prestigio e possibilità uniche di visibilità nazionale. Con l’Unione a 27 e più stati membri, passerebbero almeno 14 anni prima che tale opportunità ritorni. Per allora la presidenza semestrale potrebbe anche non esistere più: la lista attualmente stabilita si ferma al 2020.

Priorità comuni e non nazionali

L’esperienza degli ultimi dieci anni ha mostrato che il compito della presidenza è meno immediato di quanto sembri: se essa dà anche agli stati più piccoli la possibilità di influenzare l’agenda del dibattito, può trasformarsi in una trappola. I lavori della presidenza sono considerati gravitare per l’85% su questioni ordinarie di agenda UE; per il 10% sulla gestione degli imprevisti; e infine solo per il 5% sulla priorità specifiche della presidenza semestrale.

Non paga, in questo senso, portare priorità e soluzioni nazionali al tavolo: il progetto francese di Unione per il Mediterraneo del 2008, dopo aver causato divergenze nell’UE è rimasto completamente inerte. Paga piuttosto, come hanno mostrato le esperienze della Svezia (con la direttiva REACH, sulla certificazione dei prodotti chimici) e della Finlandia (con la Northern Dimension Initiative aperta a Russia e stati EFTA), inserire le priorità nazionali nel contesto dell’evoluzione dell’integrazione comunitaria. Infine il Belgio, nel 2010, ha dimostrato che è possibile condurre una buona presidenza senza avere un governo nazionale, quando si ha una forte esperienza e un’ottima amministrazione (oltre a giocare in casa).

I nuovi stati membri e le presidenze semestrali del Consiglio

La Polonia, che ha rilevato la presidenza nel 2° semestre 2011, è stato il terzo tra i nuovi stati membri ad assumere la funzione, dopo Slovenia (1° semestre 2008) Repubblica Ceca (1° semestre 2009) e Ungheria (1° semestre 2011). Le presidenze dei nuovi paesi membri non sono state finora particolarmente brillanti, con l’eccezione della Polonia. Un po’ per inesperienza un po’ per ingenuità, gli altri tre paesi sono stati ricordati più per gli scivoloni che per i meriti.

La Slovenia, che avrebbe voluto centrare lo sguardo dell’Unione sui paesi balcanici, si è trovata presa nella tormenta della dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, e delle diverse politiche degli stati UE sul suo riconoscimento, ed è scivolata su una telefonata in cui Condolezza Rice dettava al ministero degli esteri sloveno la posizione da tenere, per naufragare infine sul primo no irlandese sul trattato di Lisbona.

La Repubblica Ceca è arrivata alla presidenza con un presidente della repubblica, Vaclav Klaus, fieramente euroscettico, ed un governo, quello di Marek Topolanek, che è collassato a metà percorso; un percorso definito da più parti caotico, e che è riuscito a rimettere insieme i cocci solo grazie al buon lavoro del governo tecnico di Jan Fischer nel raggiungere un compromesso in grado di convincere l’Irlanda a votare sì ad un secondo referendum sul trattato di Lisbona.

Quindi è venuta l’Ungheria, la cui presidenza ha avuto forse l’effetto paradossale di concentrare l’attenzione dell’Unione sui pericoli del crescente autoritarismo interno del governo di Viktor Orban, che nel giro di sei mesi ha cercato di passare una legge per mettere sotto controllo i mezzi d’informazione, ha riscritto la Costituzione e si è attirato ulteriori critiche per l’ipocrisia sulle politiche di integrazione dei rom. I magiari ha visto fallire l’obiettivo di estendere l’area Schengen a Romania e Bulgaria, e sono stati infine travolti dalle conseguenze delle rivolte arabe sulla sostenibilità stessa di Schengen.

La presidenza della Polonia, nel secondo semestre 2011, è quella tra i vari nuovi stati membri UE che ha riscosso più successo. Guidata dal governo liberal-conservatore di Donald Tusk, rinnovato durante il mandato stesso della presidenza, Varsavia ha dimostrato di navigare correttamente le acque insidiose delle negoziazioni di Bruxelles, e ha mostrato un euro-ottimismo che ha rinfrancato gli spiriti – anche se ci si chiede quando questo non fosse solo di facciata. Il discorso di Tusk sull’Europa si è molto annacquato a partire dal 2012, e la Polonia non ha fatto passi decisivi verso l’ingresso nell’euro come ci si sarebbe potuti aspettare.

Le sfide della presidenza cipriota

Cipro arriva a ricoprire l’incarico della presidenza in un periodo non facile, con poche risorse, e con un bagaglio di pregiudizi da parte di diversi altri stati membri. In particolare, restano insoluti diversi dossier, incluso quello delle relazioni tra Cipro e Turchia – paese candidato all’UE che non riconosce il governo di Nicosìa come legittimo governo di tutta l’isola, e che ha minacciato di bloccare le relazioni con la presidenza del Consiglio UE durante il turno greco-cipriota; Cipro si è fatto conoscere negli ultimi anni a Bruxelles come un “one-issue member-state“, e si attende di sapere se concederà delle aperture nei confronti della comunità turco-cipriota del Nord, territorio ufficialmente parte dell’UE ma dove l’applicazione del diritto comunitario è sospesa, per mancanza di effettiva sovranità. Inoltre, pesano sulla reputazione di Nicosìa la percezione di essere un paradiso fiscale per fondi sospetti di provenienza russa e le esplorazioni minerarie di gas off-shore condotte assieme ad Israele, oltre alla situazione economica sull’orlo della bancarotta. Per quanto riguarda le relazioni con Mosca, l’ambasciatore greco-cipriota a Bruxelles, Kornelios Korneliou, ha dichiarato apertamente: “manteniamo ottime relazioni con la Russia. E vogliamo mantenerle, perché la storia di Cipro con la Russia è differente. Noi non abbiamo mai sofferto nel passato con la Russia.”

A livello europeo, i diplomatici ciprioti saranno soprattutto affaccendati nel costruire un consenso attorno al prossimo bilancio settennale dell’Unione, per il periodo 2014-2021: un compito non facile, sul quale si è già applicata a fondo e con pochi risultati la presidenza danese del primo semestre 2012. Inoltre, i greco-ciprioti dovranno cavarsela tra i problemi quotidiani della crisi dell’eurozona. Per prepararsi, il numero del personale diplomatico cipriota di stanza a Bruxelles è passato da 80 a 200 persone: “ci sentiamo come se ci fosse un intero governo di Cipro basato a Bruxelles”, ha dichiarato Korneliou.

Da EastJournal