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di Valentina Di Cesare e Davide Denti; pubblicato su EastJournal il 22 ottobre 2012

Cassini 1791 Norman B. Leventhal Map Center At The BPL From Flickr

Tornare a Zara nel 2013, per organizzare il 60° raduno dei dalmati italiani nel mondo? Complici le esperienze degli esuli di Pola, che vi si sono riuniti, e dell’identico proposito dei fiumani, anche gli zaratini ci stanno pensando. Secondo Lucio Toth, ormai presidente onorario della ANVGD (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia), gli esuli dalmati devono essere presenti tanto nelle comunità d’elezione in Italia quanto nei luoghi d’origine sulla sponda orientale dell’Adriatico, per rinnovare (ma in molti casi ricreare) quel legame tranciato nel 1947.

Nonostante le leggi approvate dal Parlamento italiano dal 2000 in poi, e dell’istituzione, il 10 febbraio, della Giornata della Memoria, i dalmati aspettano ancora qualche risposta. Riaprire il dibattito storico e sociale sulla presenza italiana in Dalmazia sarà uno dei prossimi obiettivi delle associazioni degli esuli, ribadito al raduno del 2012 a Senigallia. L’obiettivo, secondo Toth, è di “riconquistare l’attenzione della cultura e dell’opinione pubblica croate nel riconoscere l’esistenza di una radicata presenza italiana lungo la costa dalmata”. Uno sforzo che “non vuole riaprire antiche ferite reciproche, ma ricostruire una memoria che non disconosca a priori il carattere plurinazionale della nostra terra”. Nessuna rivendicazione territoriale, ma anzi “il riconoscimento del carattere minoritario dell’italianità dalmata di fronte a un’innegabile maggioranza croata della popolazione, secondo l’insegnamento di quel grande dalmata e italiano che fu Niccolò Tommaseo, devono servire a vincere le tendenze negazioniste dell’estremismo nazionalista croato e del nostalgismo comunista titino.”

Ma anche in Italia il lavoro da fare, per gli esuli, è molto. Dopo quarant’anni di oblio legato alla guerra fredda, e ad un’accoglienza in patria tutt’altro che felice, con l’insensato stigma del collaborazionismo addosso, gli esuli si chiedono: “Come ci vedono gli italiani?”. L’idea delle associazioni è di promuovere la conoscenza attraverso le scuole e le università, anche attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti dell’esodo. Durante i giorni del raduno di Senigallia si è molto parlato dei tragici eventi avvenuti dopo la Seconda Guerra Mondiale, e non solo. Perché le ragioni dell’esodo affondano nel XIX secolo, e anche l’analisi storica deve spostarsi in un arco temporale più ampio. E’ nell’ ‘800 che iniziano a formarsi i movimenti nazionalisti, tanto italiani quanto slavi. Il dibattito sui confini orientali del Regno d’Italia in costruzione, durante il Risorgimento, resto spiazzato dalle conseguenze della guerra del1866 che vide la sola annessione di Veneto e Friuli. Fu allora che, nei territori rimasti asburgici, si avviò l’irredentismo. A Trieste, porto franco asburgico e città cosmopolita (vi scrivevano allora Svevo e Joyce), si svilupparono tanto il nazionalismo italiano quanto quello slavo (sloveno e croato).

Oggi, dopo quarant’anni di oblio e un brusco risveglio al tempo delle guerre jugoslave, a tali nazionalismi vanno contrapposte le comunanze. Dall’eredità della Serenissima, al comune destino europeo: nel 2013 la Croazia sarà membro UE. E se le relazioni bilaterali vanno depoliticizzandosi (era un anno fa quando Napolitano e Josipovic, a Pola, pronunciavano un comune discorso di riconciliazione) , anche la società civile può permettersi di inserirsi nella breccia. Per un’Italia che non dimentichi più una tragedia a lungo insabbiata, e per una Croazia che riconosca i legami storici e culturali del suo litorale con l’italianità.

Istituzioni sovranazionali in comune con i paesi del Mediterraneo, una nuova Convenzione per l’approfondimento dell’Unione, ed un bilancio europeo più consistente. E’ il contenuto della “Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione Europea”, licenziata il 7 settembre 2011 dalla XIV commissione della Camera dei Deputati. Ma i nostri deputati hanno la minima idea di cosa votano? Se fosse vero bisognerebbe farci le prime pagine dei giornali: il nostro paese ha finalmente una politica europea! Grattando sotto la superficie, purtroppo, la situazione è ben meno rosea. 
A livello formale, la relazione della XIV Commissione è un bordello: non c’è alcuna distinzione tra clausole introduttive e clausole operative, ma il tutto si risolve in un mix di raccomandazioni, presunti fatti, e vaghi impegni al governo. A livello sostanziale, il documento della Camera riprende alcune delle proposte del CIME nel suo documento “Verso il 2014” di febbraio 2011 e nel rapporto “Per una comunità euromediterranea” di maggio 2011. Le tre soluzioni che propone non hanno niente di nuovo, e finiscono per essere soluzioni sbagliate. Mettere insieme una Convenzione è una soluzione vecchia e logora: quella di Nizza ha partorito un mostro giuridico, la Carta UE dei Diritti Umani, e quella per il Trattato Costituzionale ha lavorato a vuoto, rendendo necessario ripescare il contenuto della Costituzione dal rigetto popolare attraverso il trattato di Lisbona. Il progetto di CECA euro-mediterranea, in secondo luogo, è un’ottima idea con nessuna possibilità di essere messa in atto; ancora, una soluzione vecchia, che ripesca nel repertorio delle “success story” continentali senza tenere in conto la situazione politica attuale. Infine, l’invito ad espandere il bilancio dell’Unione, più che condivisibile, si scontra contro il muro di gomma dell’azione/inazione del governo. 
Perché nel nostro paese, dal 15 novembre 2010 al 27 luglio 2011, il posto di Ministro per le Politiche Europee è rimasto vacante per ben 8 mesi, a seguito delle dimissioni di Andrea Ronchi. Perché la Legge Comunitaria 2011 non ha ancora passato l’approvazione della Camera dove la maggioranza, su questi temi inattuali, latita. Perché Franco Frattini, il nostro Ministro degli Esteri, sembra avere altre priorità, e ancora oggi risulta tra gli assenti al vertice di Varsavia di questa settimana sul Partenariato Orientale. Perché, infine, non è passata una settimana e la relazione della Camera è già carta straccia: l’Italia si è accodata, assieme ad altri, ai vertici di Francia, Germania e Regno Unito nel chiedere alla Commissione che il bilancio 2014-2020 dell’Unione sia il più compresso possibile, tutto il contrario di quanto lo impegnava a fare la Relazione della Camera. 
Secondo Niccolò Rinaldi (MEP IdV ALDE), in Europa “oggi anche la Polonia sa far valere i propri interessi meglio di noi”. Sarebbe invece ora di fare sul serio: nel 2014 l’Italia avrà di nuovo la Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea, e non è un appuntamento che si possa improvvisare. La Polonia oggi nella stessa funzione se la sta cavando abbastanza bene, grazie ad una preparazione che viene da lontano. Se l’Italia dovesse restare nella stagnazione di oggi fino al 2013 (se non oltre!), non avrebbe tempo per prepararsi in maniera adeguata. Sarebbe un’altra opportunità persa, forse l’ultima: dal 2020 il sistema probabilmente cambierà, e allora non ci saranno più vetrine per farsi valere in Europa.

Today, the Croatian and Italian peoples have a common future in a Europe united on a democratic basis. Soon there will be no borders between our two countries. “It’s September 3, 2011, and the heads of state of Italy and Croatia, Giorgio Napolitano and Ivo Josipovic, celebrate with a common discourse, read in both languages, the end of the negotiations for the accession of Croatia to the European Union. The scenario is the Roman Arena in Pula, Istria, now an officially bilingual (Croatian and Italian) municipality in Croatia.

The speech of the two presidents recalls both the historical chapters of the dispute between the two countries: the fascist occupation and attempts at forced Italianization, as well as the Yugoslav partisan vendettas and the tragedy of the ‘foibe’, sinkholes: “We condemn once again the totalitarian ideologies that have suppressed cruelly freedoms and trampled upon the individual’s right to be different, by birth or by choice. ”

It is not by chance that such a mutual recognition is possible only today. By one side stands an Italian President who comes from the best part of the history of the Italian Communist Party, far from any claim of the nationalist right, but also skeptical about the uncritical brotherhood of most of his own former party with the League of Communists of Yugoslavia. By the other side stands a Croatian president that, although much younger, has gone through the same path in the reformist faction of the Croatian communists, working for their transformation in the current Social Democratic Party, and after the independence remained for a decade out of politics, away from the sirens of the authoritarian nationalism of the “Father of the Nation” Tudjman.

We cultivate the memory of the victims and we are close to the pain of the survivors. In forgiving one another our wrongdoings, let us turn our gaze to the future “. As Marzio Breda wrote on Corriere, the two presidents have shown the courage to say together important words, whose future credibility is based on the open recognition of the reciprocal wrongs of the past.

Actions like these create commonalities, and cut the grass under the feet of those political entrepreneurs in history and fear, that live upon the exploitation of a memory still brooding like embers. In 2013, Croatia will join the EU, and exactly in that moment the attention will have to remain high, so that the nationalist discourses in the two countries do not regain a foothold. Just as happened in the case of the countries of Central and Eastern Europe, it is after the EU accession that political actors, on both sides of the border, might find in Europe a new arena, where to use for political purposes a memory not yet reconciled and ready to be revived. Likewise happened for the Germans expelled from Poland and Bohemia, likewise for the Hungarian minorities in Slovakia and Romania.

The fundamental error in these cases is to apply to yesterday the categories of today, asking for an impossible reparation from the children and grandchildren of the leaders of that time. Only a reconciliation based on the mutual recognition of the wrongdoings, the impossibility to repair them, and the will to live together in a “common European home“, to use the definition of Gorbachev (yet another communist!) recalled by Napolitano and Josipovic, will ensure the common life of the different peoples of the Adriatic basin within the European Union, without turning this last into a new arena of confrontation. In this sense, the words of Josipovic and Napolitano have  shown the way, as two presidents should do, “in the name of our states and our peoples.”

 
Oggi i popoli croato e italiano hanno un futuro comune nell’Europa unita su basi democratiche. Fra breve non vi saranno confini fra i nostri due Paesi.” E’ il 3 settembre 2011, e così i presidenti di Italia e Croazia, Giorgio Napolitano e Ivo Josipovic, celebrano con un discorso comune, letto nelle due lingue, il termine dei negoziati per l’adesione della Croazia all’Unione Europa. Lo scenario è l’Arena romana della città di Pola, in Istria, oggi uno dei comuni croati ufficialmente bilingui.

Il discorso dei due presidenti richiama entrambi i capitoli del contenzioso storico tra i due paesi: l’occupazione fascista e i tentativi di italianizzazione forzata, così come le vendette partigiane jugoslave e la tragedia delle foibe: “Condanniamo ancora una volta le ideologie totalitarie che hanno soppresso crudelmente la libertà e conculcato il diritto dell’individuo di essere diverso, per nascita o per scelta.”
Non sarà un caso, che solo oggi un tale reciproco riconoscimento sia possibile: da parte di un presidente italiano che viene dalla migliore storia del PCI, lontano da ogni rivendicazione nazionalista della destra, ma anche scettico verso la fratellanza acritica di buona parte del suo stesso partito verso la Lega dei Comunisti Jugoslavi; e di un presidente croato che, per quanto ben più giovane, ha percorso lo stesso cammino nella fazione riformista dei comunisti croati, lavorando per la sua trasformazione nell’attuale partito socialdemocratico, e dopo l’indipendenza restando per un decennio lontano dalla politica e dalle sirene del nazionalismo autoritario del “padre della patria” croata Tudjman.
Coltiviamo la memoria delle vittime e siamo vicini al dolore dei sopravvissuti. Nel perdonarci reciprocamente il male commesso, volgiamo il nostro sguardo all’avvenire”. Come scrive Marzio Breda sul Corriere, hanno dimostrato coraggio i due presidenti a pronunciare insieme parole importanti, la cui credibilità futura si basa sull’aperto riconoscimento dei torti reciproci del passato.
Azioni come queste creano comunanza, e tagliano l’erba sotto i piedi di quegli imprenditori politici della storia e della paura che vivono dello sfruttamento di una memoria che cova ancora come brace. Nel 2013 la Croazia entrerà a far parte dell’Unione Europea, e sarà allora che l’attenzione dovrà restare alta, affinché i discorsi nazionalisti nei due paesi non riprendano piede. Così come accaduto nel caso dei paesi dell’Europa centro-orientale, è dopo l’adesione che gli attori politici, da una parte e dall’altra delle frontiere, possono trovare una nuova arena a livello europeo, in cui sfruttare a fini politici (carriera, consenso) una memoria non ancora riconciliata e pronta ad essere richiamata in vita. Così è stato per i tedeschi espulsi dalla Polonia e dalla Boemia, così per le minoranze ungheresi in Slovacchia e Romania.
L’errore fondamentale, in questi casi, è di applicare allo ieri le categorie dell’oggi, chiedendo un’impossibile riparazione ai figli e nipoti dei responsabili di allora. Solo una riconciliazione basata sul reciproco riconoscimento dei torti, sull’impossibilità di ripararli, e sulla volontà di vivere insieme in una “casa comune europea”, per utilizzare la definizione di Gorbacev (un altro comunista!) ripresa da Napolitano e Josipovic, potrà garantire la vita comune dei diversi popoli del bacino Adriatico all’interno dell’Unione Europea, senza che questa si trasformi in una nuova arena di scontro. In questo senso, le parole di Napolitano e Josipovic indicano la strada, come due Presidenti dovrebbero fare, “in nome dei nostri Stati e dei nostri popoli”.

 Lettera al Sole 24 Ore, 29 giugno 2011
Caro direttore,
leggendo l’articolo di Jacopo Giliberto sul Sole24Ore del 29 giugno (“Bosnia, start-up di Confindustria”, p.27) mi è venuta la pelle d’oca per la quantità di refusi e imprecisioni che si possono impilare nel giro di cinque colonne. 
Il primo refuso arriva alla linea n. 9, con la città bosniaca di Jajce che si trasforma in Jajca. Si prosegue con “l’avventura bosniaca (anzi bosgnacca, come si diceva prima dell’indipendenza)”: ebbene, nulla a che vedere con l’indipendenza: il termine bosniaco (Bosnian in inglese, Bosanac in serbocroato) indica tutti i cittadini della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, quale che sia la loro identità culturale-religiosa serba, croata, musulmana, rom o ebraica; il termine bosgnacco indica invece prettamente i membri della comunità bosniaco-musulmana (Muslimani secondo la dizione jugoslava, Bosnjak secondo il termine più utilizzato a partire dagli anni ‘90).
La seconda colonna riporta un concentrato di pregiudizi: i bosniaci sarebbero “gente di onestà rara, cultura (industriale) solida e voglia montanara di impegnarsi alla pari di friulani e bergamaschi”. Ora, non perché io sia bergamasco, ma mi aspetterei di leggere una tale generalizzazione in un articolo del XIX secolo, non del XXI. Maria Todorova, nel suo “Immaginando i Balcani” (1997) ha descritto in maniera perfetta come i pregiudizi occidentali verso la regione costituiscano una forma di orientalismo, e Giliberto ci ricade in pieno.
Ma il bello arriva dalla terza colonna in poi, quando Giliberto si lancia nella descrizione del sistema delle autonomie territoriali del paese: “qualunque imprenditore estero deve destreggiarsi tra il Governo della federazione di Bosnia Erzegòvina a Sarajevo, i due governi federati dell’Erzegòvina (capitale Mostar) e della Bosnia (capitale Sarajevo), più il governo indipendentista della Repubblica bosniaca di Serbia (uno staterello piccolo così attorno al polo industriale di Banja Luka), e il microstato libero di Brcko, e poi i singoli governi cantonali. Ciascuno con i suoi ministri e capi di governo”. Verrebbe voglia di fargli un disegnino, al povero Giliberto perso nei meandri della complessità amministrativa balcanica, per mostrare come la Bosnia ed Erzegovina (capitale Sarajevo) sia invece suddivisa in due entità, una Federazione di Bosnia ed Erzegovina (capitale sempre Sarajevo), a maggioranza croata e musulmana, e decentrata in cantoni e municipalità, e una Republika Srpska (termine che sarebbe meglio non tradurre, ma proprio volendolo fare sarebbe la Repubblica Serba di Bosnia) che non è “piccola così” ma ricopre il 49% del territorio, in base agli Accordi di Dayton del 1995, ed ha un governo centralizzato a Banja Luka senza cantoni ma solo municipalità. Infine, e giustamente, il distretto di Brcko, che non è un “microstato libero” ma un territorio sottoposto direttamente al governo statale. Anzi. Il disegnino c’è già, lo si può trovare qua.
Per concludere: l’imprenditoria italiana, e il Sole24Ore come suo giornale di riferimento, fa bene a guardare ai Balcani come possibilità di investimento e sviluppo. Ma per farlo ci vuole anche la capacità di affidarsi a chi di Balcani si occupa da lungo tempo e sa muoversi in tali complessità senza rischiare scivoloni. Consiglio una lettura delle diverse riviste online sulla regione, a partire da EastJournal. 
Cordiali saluti,
Davide Denti
La sobria reazione di Libero-news.it

Scritto per East Journal, 9 giugno 2011

E così Pisapia, nonostante i furti d’auto, gli zingari, e le moschee, ha effettivamente conquistato Palazzo Marino. I giornali polacchi hanno registrato anche il secondo turno delle elezioni amministrative italiane, anche se più in sordina. Berlusconi riappare sulla stampa polacca per i suoi processi e paragonato ad una gaffe di Tusk.

Gazeta.pl ha annunciato già il 30 maggio che Berlusconi riconosceva la sconfitta, riportando la frase minacciosa verso i milanesi, incoraggiati a pregare il buon Dio perché nulla di male gli succeda. Rzeczpospolita, giornale conservatore, il 31 maggio titolava della sconfitta di Berlusconi nelle elezioni locali, dopo una campagna elettorale “intensa e a volte volgare”, incluso l’insulto agli elettori di sinistra “senza cervello”. Il quotidiano di Varsavia riporta anche l’opinione dissidente di Giuliano Ferrara, su una campagna in cui sono stati fatti “tutti gli errori possibili”, e nota come tutte le maggiori città d’Italia, esclusa Roma, sono oggi in mano all’opposizione. Il carisma di Berlusconi, questa volta, “ha fallito nell’aiutare i suoi candidati, anzi li ha danneggiati”. Secondo Rzeczpospolita, che riporta lo scetticismo della Lega e l’invito di Ferrara e Belpietro a non ripresentarsi nel 2013, “tutte le indicazioni puntano al fatto che l’era Berlusconi, durata 17 anni, volge al termine”.
Anche i procedimenti giudiziari di Berlusconi sono apparsi nelle news polacche: ancora su Rzeczpospolita, che ha riportato l’avvio dei processi Mediatrade e Ruby in concomitanza con il turno elettorale, e quindi su Gazeta.pl, che ha notato l’indagine aperta dalla procura di Roma, su segnalazione dei Radicali, a proposito dei comunicati/intervista trasmessi a ripetizione dai TG del 20 maggio.
Infine, Berlusconi è riapparso sui giornali polacchi come pietra di paragone per uno scivolone in cui è incorso il premier polacco Donald Tusk. A seguito dell’ondata di caldo estivo (30°) che ha raggiunto la Polonia ai primi di giugno, in una conferenza stampa Tusk si è sentito domandare da una giornalista di Polskie Radio se tutto era “abbottonato” per la presidenza UE a rotazione, che la Polonia ricoprirà dal primo luglio. “A guardare il vestito estivo della signora, abbottonato non è ciò che mi viene in mente. Mi piace… l’estate”, è stato il commento, inaspettato a queste latitudini, del premier polacco, che ha scatenato una selva di commenti e critiche, con paragoni prima con Bill Clinton, e quindi con Berlusconi. L’idea, uscita dalla versione inglese di Metro, è rimbalzata su Polskie Radio per ricadere nell’agone politico, dove Tusk è stato avvertito dalla destra polacca di Diritto e Giustizia di non cadere nel girone del bunga-bunga.

Le elezioni municipali italiane non hanno certo fatto le prime pagine dei giornali in Polonia, ma i quotidiani hanno comunque dato notizia del clima e degli esiti della tornata elettorale. In un paese in cui le spese elettorali sono strettamente regolate e le campagne elettorali si svolgono in sordina, i toni nostrani sembrano curiosità esotiche.
Rzeczpospolita (giornale conservatore) il 15 maggio riportava che “l’Italia ha mostrato un imbarazzante e ridicolo spettacolo di reciproci insulti”. A seguire, l’elenco: le donne dell’opposizione “brutte come la notte” (La Russa), i leader dell’opposizione incazzati per doversi guardare allo specchio la mattina (Berlusconi) e che non si lavano (sempre il nostro); le accuse di essere ladri e fascisti, lanciate di rimando dall’opposizione. E infine lo sgarbo della Moratti con la falsa accusa a Pisapia, citato dal giornale comunque come “un tempo simpatizzante dei terroristi delle Brigate Rosse” – calunniate, calunniate, qualcosa resterà.
Gazeta Wyborcza, giornale social-liberale, aggiunge come Berlusconi si sia fatto appositamente mettere capolista tanto a Milano quanto a Napoli, per trasformare le elezioni municipali in un referendum su sé stesso, nel momento in cui più si trova in difficoltà per il riavvio dei processi. Gazeta conclude con il triplo “vinceremo” a Milano, nelle parole di Bossi, Berlusconi e Formigoni, contro lo sfidante del PD.
Un po’ diversi i toni nel post-elezioni, con Rzeczpospolita che titola “L’inizio della fine per il primo ministro italiano?”. Nonostante la campagna elettorale “acuta e a volte volgare”, e l’impegno in prima persona di Berlusconi, RP nota il “disastro” dei risultati di Milano, ricordandone l’importanza per Berlusconi e la netta perdita di voti rispetto alle regionali del 2010, riportando infine come queste elezioni siano il primo segno che gli italiani sono stanchi del loro primo ministro, e come ciò sarà da confermare alle elezioni del 30 maggio.

Intervista a Michele Boni,
consulente strategico della Presidenza del Consiglio

Cosa ne pensi dello stato attuale del dialogo politico in Italia?
Siamo in un processo di apprendimento. Stiamo ancora vedendo interruzioni nel nostro dialogo, prospettive di sviluppo strategico si mescolano con temi emotivi, politici e simbolici. Ma le cose sono migliori di quelli che erano una volta. Credo che l’essenza della politica sia di abituare i cittadini a scegliere tra diverse opzioni. Ciò richiede tempo, non si può semplicemente dire alle donne di 59 anni che il prossimo anno dovranno lavorare altri nove mesi, ma il problema deve essere presentato in modo da permettere alle persone di riflettere a fondo.

Diciotto mesi fa abbiamo parlato del documento Italia 2030, la prima visione strategica per lo sviluppo dell’Italia nei prossimi decenni. Come sta procedendo il lavoro su di esso?
Abbiamo raggiunto la fase finale della discussione sul documento. Abbiamo ridefinito i punti principali del nostro programma di sviluppo. Inizialmente, abbiamo pensato che il fattore principale per il miglioramento della qualità della vita dovesse essere dare pari opportunità alle diverse regioni e ai diversi gruppi sociali d’Italia. Ora stiamo costruendo un piano di sviluppo attorno ad un altro pilastro: l’innovazione nell’economia. Questa a sua volta si basa principalmente sull’istruzione, a partire dal livello prescolare, combinata con le pari opportunità al fine di stimolare la massima creatività individuale. Il nostro vantaggio competitivo deve essere basato sul capitale intellettuale, che deve essere creato il più presto possibile. Il prossimo decennio per lo sviluppo della Italia dovrebbe essere un periodo di boom della qualità dell’insegnamento. Abbiamo avuto un boom quantitativo a partire dalla metà degli anni 1990, con il numero di studenti di livello universitario in crescita di quattro volte e mezzo. Tuttavia, stiamo avendo enormi problemi con il trasferimento di questo boom nel mercato del lavoro. Come in molti altri paesi europei, stiamo vedendo sempre di più la sindrome dei 25enni incapace di far fronte all’avvio della loro carriera.

Solo il 5 per cento degli insegnanti italiani sanno insegnare con la tecnologia digitale. Come dimostra la pratica a livello mondiale, nel frattempo, le abilità non di routine sono estremamente importanti sul mercato del lavoro, come ad esempio la possibilità di sfruttare informazioni da fonti diverse e di creare reti con altre persone. le competenze informatiche sono una necessità assoluta.

Da un lato, dobbiamo fare in modo che i risultati della ricerca siano messi a frutto commerciale, e che ci siano legami tra scienza e business. La situazione sta migliorando. Le aziende italiane stanno cominciando a pensare di essere competitive non in termini di bassi costi di produzione, ma per la qualità del prodotto finale.

Può Italia 2030 programma essere descritto come una road map? C’è già un calendario per le riforme?
Se vogliamo continuare ad avere successo nei prossimi 20 anni, la maggior parte delle decisioni fondamentali devono essere fatte entro il 2015 al più tardi. Penso che possiamo preparare 25 decisioni chiave, e tre o quattro progetti relativi a ciascuna, il che significa un totale di circa 100 progetti. Questa sarà la tabella di marcia per il programma Italia 2030.

 
Nel documento Italia 2030, io uso le nozioni di geografia e di generazioni di sviluppo. Geografia è tutto ciò che accade tra le regioni, mentre il concetto di generazioni è legato al fatto che intorno al 2020 l’Italia avrà un’élite completamente nuova con l’ingresso della generazione più giovane nei centri direzionali.
Questo processo è già diventando evidente. La generazione che è stata al governo dagli anni ’90 sta mostrando di avere il fiato corto. Come saranno i loro successori? Alcune delle loro qualità sono note da studi sociologici. Prima di tutto, hanno un forte senso dell’essere responsabili di se stessi, sentono di aver saputo far fronte a circostanze difficili. Ciò è dimostrato, per esempio, dal successo di centinaia di migliaia di persone che lasciano temporaneamente il paese per lavorare negli altri paesi dell’Unione europea, grazie alla libera circolazione nell’UE. In secondo luogo, per le giovani generazioni dei italiani non vi è più alcuna differenza di istruzione o divario tecnologico, la migliore prova di questo può essere trovato nel loro uso creativo di Internet. Gli studi dimostrano inoltre che questa generazione è resistente alle fluttuazioni dell’economia. I loro bisogni e aspirazioni di miglioramento della qualità di vita, anche finanziariamente, sono così forti che i loro livelli di spesa non cambiano in tempi di recessione. Da un lato, dichiarano un attaccamento a valori come la famiglia e avere dei figli, mentre dall’altro li vediamo dimostrare pragmatismo e responsabilità: i giovani stessi si chiedono se saranno in grado di permettersi di avviare una famiglia e sostenere i propri figli.

Negli studi comparativi internazionali che hanno analizzato il capitale sociale globale dell’Italia e il capitale sociale delle giovani generazioni, il secondo è il doppio. Questa generazione ha tutte le carte per diventare la forza trainante dei prossimi decenni, ma potrebbe anche diventare una generazione perduta. Questo accadrà se viene rifiutato il loro potenziale innovativo.

Come può avvenire questo?
Vi mostrerò il pericolo con un esempio. Siamo felici di vedere la flessibilità dei giovani sul mercato del lavoro, di come possano sfruttare diverse forme di occupazione. Due o tre anni di tale flessibilità è buona, ma 10 anni diventano negativi. Molti studi, in particolare quelli che indagano sulle questioni psicosomatiche, la stabilità emotiva e la sicurezza, stanno iniziando a mostrare alcune tendenze negative. L’incidenza di malattie mentali nel gruppo di età 25-30 è la più alta di tutte le età. I giovani lavorano più a lungo e di più, ma fanno meno soldi e hanno un senso di minor sicurezza. Essi sono in grado di sopportare questo, perché raggiungono le loro aspirazioni con il duro lavoro. Tuttavia, questo influenza altre aree della vita, soprattutto il numero di figli e la decisione di metter su famiglia.


Pensi che i giovani siano in grado di agire nell’interesse della comunità e del Paese nel suo complesso?
Il potenziale innovativo delle giovani generazioni della Italia è visibilmente superiore al potenziale delle generazioni precedenti. Ciò è dovuto da un lato ad una migliore educazione. D’altra parte, non hanno ancora invaso la “sfera pubblica”. Sono ancora insufficientemente rappresentati nella vita pubblica, oppure questo settore è conquistato dai conformisti anziché dalle persone innovative. Tuttavia, non vedo i giovani come introversi o egoisti. Forse il cambiamento di generazione entro il 2020, di cui stiamo parlando, progredirà  molto più violentemente di quanto ci aspettiamo oggi, e i giovani entreranno nella vita pubblica in numero maggiore. Per questo motivo, mi sia consentito di ripetere, dobbiamo prendere tutte le decisioni fondamentali entro il 2015, e poi metterli in pratica, mentre il cambio generazionale si svolgerà parallelamente a questo. Stiamo lavorando per facilitare il processo, avremo un rapporto sui giovani pronti per aprile / maggio, tra cui alcune delle raccomandazioni su ciò che deve essere fatto.

Ti aspetti che le dispute politiche e le tensioni sociali aumentino quest’anno?
Le tensioni politiche si alzano sempre prima delle elezioni e non c’è niente da fare al riguardo. Per quanto riguarda la tensione sociale, non credo ci siano gravi rischi. L’unico fattore potrebbe essere l’aumento dei prezzi di cibo e carburanti. C’è qualcos’altro di cui ho davvero paura – non essere in grado di far fronte alle minacce di post-crisi, nel senso che le misure volte a stabilizzare le finanze pubbliche siano prese senza una comprensione delle priorità di sviluppo dell’Italia.

Impossibile leggere una intervista simile? In Italia, forse. Michał Boni esiste davvero, è a capo della squadra di consulenti strategici della Presidenza del Consiglio della Polonia.
Sostituite ovunque “Polonia” a “Italia”, e l’intervista originale (in inglese) la potete leggere qui:
Selon le dernier rapport sur « la famille et le travail » de la Banque centrale italienne, l’État social italien est fondé sur la famille. En effet, de nombreux jeunes ne peuvent se permettre de fonder une famille que grâce à l’aide de leurs parents, parfois même de leurs grands-parents. Mais jusqu’à quand les familles seront-elles en mesure de suppléer à l’incapacité des gouvernements de mettre en place des amortisseurs sociaux ? Et quel model de justice et équité sociale propose l’Italie aujourd’hui à ses futurs citoyens ?
  
 
La démonstration devant la Conférence nationale sur la famille, tenue à Milan en Novembre 2010. Association “Certi diritti” et Marco Cappato. 
No country for young men
L’Italie se trouve en ce moment dans une situation où les jeunes savent qu’ils ne peuvent pas aspirer à la situation socio-économique de leurs pères. La Banque centrale remarque que 70% du nouveau chômage frappe les jeunes: faute de segmentation générationnelle du marché du travail, qui différentie leurs contrats de travail précaire des contrats à temps indéterminé et bien protégés, de leurs pères. La crise pourrait donc encore retarder l’émancipation professionnelle des jeunes. 
Maternités précaires
La situation est similaire, sinon pire, dans le cas de nouvelles familles, sujet d’une récente enquête de Vanguard pour Current TV. Le gouvernement offre un prêt de 5000 € à taux réduit à travers du « Fond nouveaux nés ». « Ridicule », commente une nouvelle-mère, « je préfère les demander à ma mère, qui au moins ne veut pas d’intérêts ». L’Italie dépense pour ses politiques sociales seulement 1,2% du PNB, tandis que la moyenne européenne est autour du 2,4% : il y manque toute ressource structurelle qui serait en mesure de soutenir les mères de nouveau-nés et leurs familles.
Dans les cas des travailleuses précaires, une maternité peut très vite les amener au chômage. Avoir un enfant aujourd’hui en Italie constitue un risque économique : la pauvreté relative des familles augmente de 10,8% à 12,1% avec le premier enfant, et jusqu’au 26,1% avec le troisième. 
Un bien-être social fondé sur des retraites
Il ne reste alors plus que de demander de l’aide aux grands-parents, qui aujourd’hui bénéficient d’une bonne retraite. La dépense italienne pour les retraites constitue la plus grande partie du budget social (le 30%, contre le 16% de moyenne en UE), puisqu’aucun gouvernement ne voudrait perdre le support de nombreux retraités.
Les retraites constituent le trésor caché des familles italiennes, en leur permettant de transférer des bénéfices aux fils et aux petits-fils, qui n’obtiennent pas d’aide sociale. Mais combien de temps encore sauront-elles résister à la crise ? Le manque d’un modèle de « croissance inclusive » retarde le moment où les jeunes peuvent fonder leur propre famille et conduit ainsi à une baisse de la croissance démographique.
L’attention à la famille reste un bon slogan, mais qui est aujourd’hui vidé de tout contenu. Les plans du gouvernement sont incertains, et les ressources limitées. A la dernière conférence nationale sur la famille, certains membres du gouvernement sont même allés jusqu’à proposer de -ne garantir les aides étatiques qu’aux familles régulièrement mariées et avec enfants. L’Italie reste en attente d’une véritable politique de la famille, capable de redresser la courbe démographique, déjà déprimée depuis des années et soutenue seulement par l’immigration.

Ricapitoliamo:
Frattini va al Consiglio Affari Esteri dell’Unione Europea, ieri. Sul tavolo c’è da discutere di: Bosnia, Albania, Libano, Tunisia, Egitto (soprattutto Egitto).
Qual è la priorità che Frattini porta, a nome dell’Italia? La protezione delle minoranze cristiane nei paesi terzi. Intento meritorio, ma anche molto velleitario in assenza di un’efficace politica estera europea.  Ma vabbé: per un giorno, Frattini si fà ministro degli esteri del Vaticano, in prestito.

Ma soprattutto, che cosa ottiene? Sul tavolo c’è già un documento che impegna l’UE a promuovere il rispetto delle minoranze religiose tutte, non solo cristiane: il riferimento è anche agli sciiti iracheni: l’UE condanna “fermamente” gli “atti di terrorismo contro luoghi di culto”. Onesto compromesso, si dirà. E invece no, il Nostro batte i pugni sul tavolo perché i cristiani non sono esplicitamente menzionati: “laicismo esasperato”, grida, e fa saltare l’approvazione del documento. Contro la modifica proposta da Frattini su un testo già concordato non ci si mettono solo i socialisti spagnoli e portoghesi, ma pure il governo conservatore della cattolica Irlanda, e il Granducato del Lussemburgo (ohibò, quell’empio del granduca!), nonché dietro le quinte i governi (tutti conservatori!) di Gran Bretagna, Danimarca, Svezia e Finlandia.

La Repubblica titola: “UE, schiaffo all’Italia sulla difesa dei cristiani“: e si ricomincia la tarantella della disinformazione su quanto è cattiva, massonica e laicista l’Europa.

Farò peccato, ma tento di azzeccarci: il tutto costituisce un’abile mossa (perdente in partenza) del governo Berlusconi IV per sollevare il solito polverone mediatico, dare un contentino al Papa e far smettere gli attacchi da parte di CEI e giornali cattolici per via dell’aberrante comportamento del nostro premier. Se Frattini avesse voluto veramente fare qualcosa per la protezione dei cristiani, avrebbe fatto meglio ad agire da mediatore ed accettare un compromesso, anziché fare saltare il tavolo, alle spese proprio delle minoranze cristiane nei paesi terzi.

concludiamo con un pezzo di umorismo nero:

Dopo un processo che l’Iran ha definito equo, è stata giustiziata tramite impiccagione Zahra Bahrami. Ammettetelo, per un attimo avete tremato per Sakineh. (Richi Selva)